Yoga
IL RESPIRO: PRANAYAMA IL CONTROLLO DEL SOFFIO VITALE
Narrano le Upanisad che il dio Brahmà, espirando, crea i mondi; poi, trattenendo il respiro, li mantiene in vita; infine, inspirando, li richiama a sé e li distrugge. Questo mito attesta l’immensa importanza che la tradizione indiana, e lo yoga in particolare, attribuiscono all’atto respiratorio: nell’esecuzione degli àsana a ogni movimento o sequenza di movimenti corrisponde una specifica sequenza respiratoria. «Sbagliare» la respirazione mentre si esegue un àsana vuol dire privare l’esercizio di gran parte della sua efficacia o addirittura renderlo nocivo: ma per apprendere a respirare correttamente durante le sedute e prepararci agli esercizi specifici del prànàyàma.
Secondo la fisiologia occidentale la respirazione non è altro che uno scambio, a livello polmonare, di sostanze gassose: negli alveoli dei polmoni il sangue cede all’aria anidride carbonica e ne riceve ossigeno, che l’aria contiene nella misura del 21%. Lo yoga sostiene invece che oltre all’ossigeno noi assorbiamo dall’aria qualcosa di più: un’energia sottile, con la quale ci carichiamo a ogni atto respiratorio. Senza di essa nessuna forma di vita potrebbe esistere, né alcun processo vitale nel nostro corpo potrebbe aver luogo: ogni cellula, ogni atomo del nostro essere, è pervaso da questa mirabile energia, che non si lascia definire in formule chimiche, né può essere direttamente osservata con strumenti scientifici. Soltanto quando essa definitivamente ci abbandona, il nostro corpo muore e i suoi elementi si scompongono per ricomporsi liberamente nel divenire del cosmo.
Gli antichi maestri chiamarono quest’energia prana e il controllo volontario e cosciente di essa pranayama.
Avrete provato, qualche volta, ad entrare in un luogo che per molto tempo era rimasto chiuso senza venire aerato: avrete notato, in tale circostanza, come facilmente si viene oppressi da una sensazione di difficoltà respiratoria. Frasi come «Si soffoca, qua dentro!» vi sono venute spontanee: eppure, se analizzassimo quell’aria, scopriremmo che l’ossigeno vi è presente nelle solite proporzioni. Ma allora, di che si tratta? Perché avete avuto la sensazione di respirare un’aria «morta»? E soltanto un’impressione, un fatto psicologico? Lo yoga risponde di no: esso vi dice che quell’aria è davvero morta perché manca di pràna.
Al contrario, quando lungo la riva del mare, nel folto di un bosco alpestre, o presso le acque spumeggianti di un torrente di montagna, respiriamo a pieni polmoni e subito ci sentiamo pervadere di vitalità, non è soltanto perché respiriamo un’aria pulita e fresca, ma soprattutto perché respiriamo pràna. Vi sono infatti luoghi dove il pràna è particolarmente abbondante e altri, come purtroppo le case di città, dove esso è quasi assente: ecco perché è così importante praticare a finestre spalancate, in modo da per mettere al pràna di fluire liberamente nella stanza. In verità, solo se l’aria del luogo in cui pratichiamo è abbastanza ricca di pràna, è possibile il prànàyàma: questo infatti consiste nel controllo del pràna attraverso una serie di tecniche respiratorie, le quali consentono di modificare non solo la quantità di energia prànica assorbita dal corpo, ma anche la qualità dell’energia stessa.
Va poi sottolineato che il pràna, oltre che dal luogo, dipende anche dall’ora del giorno: è infatti massimo nelle ore fresche che precedono l’alba, fra le tre e le cinque del mattino.
Il respiro e le sue fasi
Osservatevi mentre respirate: la vostra inspirazione è corta o profonda? E viceversa: espirate con facilità? Trattenete una parte dell’aria o la lasciate andare espirando?
Il vostro diaframma è rilassato o contratto? Quali problemi presenta per voi l’espirazione libera e completa? E, in ultimo, come collegate l’inspiro con l’espiro? Siete consci dell’intrinseca unità dell’inspirazione e dell’espirazione?
È facile rendersi conto, attraverso un’attenta osservazione, di come il respiro è, in certa misura, lo specchio della nostra personalità, e di come il ritmo respiratorio è collegato alla nostra vita psichica. A seconda che siamo ansiosi, agitati, oppure, al contrario, perfettamente rilassati, la respirazione differisce profondamente: essa è infatti influenzata dallo stato d’animo dominante in un determinato momento. Lo yoga, tuttavia, non si limita a questa osservazione: esso crede fermamente che i nostri stati mentali siano correlati alla quantità e alla qualità del pràna che viene assorbito e fissato. Se così è, ciò significa che attraverso opportune tecniche si può arrivare, per mezzo del respiro, a modificare il pensiero: ma prima di giungere a tanto dobbiamo prendere coscienza dell’atto respiratorio e delle sue fasi.
Di solito pensiamo alla respirazione come composta di due fasi: l’inspirazione e l’espirazione. In realtà, secondo l’attenta osservazione dello yoga, il respiro si compie attraverso quattro fasi: dopo che i polmoni sono stati riempiti nell’inspirazione (I) si ha una breve apnea inspiratoria (II), poi l’espirazione (III), ed infine un’apnea espiratoria (IV). I primi passi del prànàyàma consistono nel divenire ben consapevoli del respiro nella completezza delle sue quattro fasi: questa presa di coscienza è già prànàyàma, perché ogni volta che portiamo l’attenzione sull’atto respiratorio modifichiamo qualitativamente e quantitativamente l’energia prànica che viene assorbita dal corpo, e inoltre tale consapevolezza serve a eliminare gli errori che spesso viziano la funzione respiratoria. In effetti, sebbene respirare sia un atto istintivo, molte persone respirano male e non possono trarre un reale beneficio dal pràna finché non si rieduchino a respirare nel modo giusto.
Quali sono i requisiti di una corretta respirazione? Innanzitutto occorrere spirare sempre attraverso il naso: la bocca è, per così dire, di riserva in caso di infreddature o malformazioni che ostruiscano le vie nasali. In secondo luogo, bisogna imparare a respirare in modo completo: vi sono infatti persone che respirano soltanto con la parte alta del torace, mentre il diaframma è come bloccato. Questa è la respirazione tipica di chi soffre di stati d’ansia e di tensione nervosa: notate che, respirando in questo modo, la situazione psicologica si aggrava, dal momento che il sistema nervoso è un grande consumatore di energia prànica. Una respirazione completa, lenta e profonda, accumula pràna in quel «secondo cervello» che è il plesso solare (manipura-cakra), mentre una respirazione superficiale e affrettata fa sì che ci si «scarichi» presto, proprio come una batteria che non venga debitamente alimentata: all’ansia e al nervòsismo fa quindi seguito un senso di depressione e di vuoto mentale, dovuto soprattutto alla carenza di pràna.
Bisogna eseguire sempre gli esercizi respiratori in un luogo fresco, sospendendoli nella stagione più calda, quando la temperatura dell’ambiente comincia a crearvi disagio. Il pràna infatti, in quanto energia, è anche calore, tant’è vero che gli yogin tibetani hanno sviluppato delle tecniche respiratorie molto avanzate capaci di alimentare il «fuoco gastrico»: per mezzo di questi particolari prànàyàma, riservati a pochi iniziati, riescono a innalzare volontariamente la temperatura del corpo.